01/08/2014

Mancate esportazioni e malattie veterinarie: il caso della Cina

Lo sviluppo del settore passa attraverso l’incremento delle nostre esportazioni verso i mercati extra europei, visto che il mercato comunitario è ormai un mercato domestico che tende alla saturazione. Le esportazioni di prodotti di salumeria verso i Paesi terzi hanno superato nel 2013 le 27.500 tonnellate di prodotto per un valore di oltre 250 milioni di euro.

Numeri che rappresentano sia in termini di quantità sia di valore il 20% circa del totale delle esportazioni della salumeria italiana. A queste si aggiungono le esportazioni verso i Paesi Extra Ue di carni e frattaglie per un valore di circa 60 milioni di euro.

Numeri significativi ma ancora marginali perché per la filiera suinicola italiana esistono due importanti ostacoli allo sviluppo dell’attività di esportazione delle proprie produzioni, la malattia vescicolare del suino (MVS) e la peste suina africana (PSA).
Due malattie esclusivamente animali – che non coinvolgono in nessun modo l’uomo – e che sono localizzate in poche regioni d’Italia (Calabria, Campania e Sardegna), peraltro marginali nel panorama produttivo, concentrato storicamente nella pianura padana.
Sebbene la Comunità europea – applicando il principio della regionalizzazione veterinaria – riconosca il territorio italiano diverso dalle Regioni Calabria e Campania come indenne da MVS e quello diverso dalla Sardegna indenne dalla PSA, la maggior parte dei Paesi terzi adotta divieti all’importazione di carni suine e relativi prodotti dall’intero nostro Paese.

Questa situazione comporta la limitazione della gamma dei prodotti di salumeria esportabili e l’impossibilità di esportare carni suine (fresche, refrigerate e congelate) e frattaglie verso numerosi e importanti Paesi terzi. Le quote di esportazione prima ricordate quindi sono oggi realizzate quasi esclusivamente dall’attività di esportazione di salumi a lunga stagionatura (anche oltre 400 giorni) e cotti, prodotti accettati all’importazione grazie alle garanzie insite nei trattamenti tecnologici adottati.

Limitazione della gamma dei prodotti di salumeria esportabili in Cina
Verso molti Paesi risulta preclusa l’esportazione delle produzioni a media/breve stagionatura (es. coppe, pancette, salami). Vengono infatti applicate (anche a fini protezionistici) misure estremamente restrittive che limitano l’esportazione ai soli prodotti di salumeria che hanno subìto determinati processi di trasformazione come la lunga stagionatura o la cottura.

Tra i Paesi che presentano maggiori restrizioni c’è la Cina che consente l’esportazione del solo prosciutto crudo stagionato 313 giorni e lavorato in pochi impianti riconosciuti idonei dalle autorità cinesi. Per quanto riguarda i cotti, a oggi, dai 5 impianti autorizzati a esportare prosciutti cotti ancora non è stato possibile effettuare spedizioni a causa della mancata pubblicazione della lista degli stabilimenti abilitati sul sito AQSIQ. Tra gli altri Paesi con alte barriere non tariffarie figurano l’Australia, la Corea del Sud, Singapore, l’Argentina e gli Stati Uniti.

Per i salumi il mercato potenziale della Cina è sicuramente molto grande benché difficilmente quantificabile. Per avere un parametro utile si consideri che nel 2013 l’Italia ha esportato in Cina salumi per 700 mila euro. Nello stesso anno le esportazioni verso il Giappone (che non presenta barriere) sono state di quasi 30 milioni di euro. Il Giappone ha una popolazione pari al 10% di quella cinese, anche se con un reddito medio decisamente più alto. Ipotizzare nel breve periodo un mercato potenziale pari a quello giapponese non è azzardato.

Esportazioni carni suine: un’occasione persa per l’Italia
Le esportazioni di carni e frattaglie suine dell’UE nel 2013 hanno raggiunto 4,7 miliardi di euro.
Di questi 4,75 miliardi l’Italia con 59 milioni ha rappresentato appena l’1,3%.
Un dato decisamente modesto che ha indubbiamente risentito dei divieti posti all’esportazione dei nostri prodotti da importanti Paesi terzi a causa della presenza sul nostro territorio di MVS e PSA.

La valorizzazione delle carni fresche e delle frattaglie, che oggi sono svendute o sostanzialmente regalate all’industria del pet food sembrerebbe un problema marginale per la filiera. Tuttavia una azione di questo tipo aiuterebbe a superare quello che nel settore è comunemente indicato come il paradosso del “suino bipede”: sistematicamente circa il 50% del valore del suino italiano (con punte del 70%) viene scaricato sulle sole due cosce che, in termini di peso, rappresentano mediamente solo il 17% del totale.
Una situazione che, in momenti di difficoltà della valorizzazione dei prosciutti DOP, crea gravi scompensi in una filiera dal ciclo produttivo molto lungo (9/11 mesi per il suino più 16/24 mesi di stagionatura) con effetti a cascata che colpiscono progressivamente i prosciuttifici e i macelli e poi risalgono investendo anche la fase dell’allevamento.

Per avere una misura di quanto il nostro Paese risulta penalizzato da questo problema è sufficiente pensare che la Danimarca (principale esportatore europeo verso i Paesi terzi) nel corso nel 2013 ha esportato prodotti per oltre 1 miliardo e 240 milioni, ovvero un valore 20 volte superiore a quello italiano, la Germania 1 miliardo di euro, la Polonia oltre 485 milioni, la Spagna circa 450 milioni di euro.
Inoltre, fra i principali partner europei, non sono soltanto i grandi produttori di suini a evidenziare performance migliori delle nostre. Anche Paesi con un patrimonio suinicolo di molto inferiore a quello italiano – come l’Irlanda e l’Austria – hanno registrato nel 2013 esportazioni decisamente maggiori rispetto alle nostre (rispettivamente 131 e 120 milioni di euro).

In questo contesto la Cina rappresenta il 18% di tutte le esportazioni di carni suine e frattaglie dall’UE: 840 milioni su un totale di 4,7 miliardi di euro. Di questi 840 milioni, inoltre, oltre il 54% è composto di frattaglie. In questo contesto l’Italia non esporta nulla, nonostante sia il sesto produttore suinicolo europeo in termini di macellazioni.

250 milioni di mancate esportazioni, 80 milioni solo in Cina
In conclusione, le perdite commerciali dovute all’attuale situazione si possono prudenzialmente stimare in circa 250 milioni di euro/anno di esportazioni.

Una cifra che potrebbe essere realizzata già nel 2015 a fronte di una liberalizzazione degli scambi. Tali valori, infatti, si potrebbero ragionevolmente raggiungere in breve tempo in assenza di barriere sanitarie al commercio secondo la seguente stima: 200/210 milioni di euro di carni e frattaglie (contando prudenzialmente di arrivare a un livello intermedio tra Belgio e Francia) e 40/50 milioni di euro di salumi.

Un dato che viene calcolato considerando, da un lato, i progressi legati ai nuovi prodotti esportabili e alla crescita complessiva delle esportazioni dovuta alla possibilità di offrire la gamma completa della salumeria italiana e, dall’altro lato, le difficoltà dovute alle barriere culturali in Asia e i fenomeni di Italian sounding nelle Americhe e Australia che limiterebbero presumibilmente in una prima fase la crescita delle nostre esportazioni. La Cina da sola potrebbe garantire il 30% di queste esportazioni aggiuntive (80 milioni di euro di carni, frattaglie e salumi).

Abbattere rapidamente queste barriere è quindi fondamentale, perché il tempo non è una variabile indipendente. Mentre le nostre aziende attendono i necessari provvedimenti, infatti, i concorrenti europei e i produttori locali rafforzano le loro posizioni commerciali, che saranno più difficilmente recuperabili in futuro.

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